Gli assetti concettuali che danno forma a ciò che consideriamo possibile costituiscono la nostra grammatica del riconoscimento, il mediatore culturale tra noi e il mondo.
Dentro il campo del riconoscibile
Il 10 dicembre del 1948, a Parigi, veniva adottata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Settantasei anni fa, il suo obiettivo non era soltanto definire dei principi: era ridefinire le cornici del riconoscibile.
Stabilire che il valore di una vita non può essere dedotto da ciò che sappiamo già, e neppure da ciò che scegliamo di vedere.
La Dichiarazione non è solo un elenco di principi, ma un invito a guardare l’umano prima delle categorie che lo dividono.
Ogni articolo è, in fondo, un esercizio di immaginazione civile: non afferma soltanto che la dignità non dipende da ciò che sappiamo già delle persone, ma che dipende da ciò che abbiamo il dovere di riconoscere in esse, indipendentemente da ciò che tendiamo a considerare rilevante.
Le soglie in cui si forma il senso
Nelle ultime due settimane abbiamo provato a muoverci dentro questa prospettiva.
Abbiamo cercato di indagare la soglia interpretativa: quel punto prima del fatto in cui si decide cosa è credibile, cosa è comprensibile, cosa è pensabile.
Abbiamo attraversato otto modi in cui la differenza — di origine, ruolo, appartenenza, lingua, posizione sociale — può essere interpretata prima ancora di essere vissuta.
Lo scopo non era definire categorie, ma provare a interrompere la pre-minimizzazione cognitiva, quel processo per cui l’esperienza viene filtrata da schemi che ne anticipano il significato.
Donne ed Età
Educare è il Primo Atto di Cura.TUTTI GLI ESITI POSSIBILI DELLA VIOLENZA NASCONO DA MODELLI CULTURALI CHE LA RENDONO PENSABILE.
L’età può diventare un codice culturale che definisce ciò che viene ascoltato e ciò che viene escluso. Nelle sue traiettorie, la voce può essere letta prima come colpevole, poi come responsabile, infine come invisibile.
Donne e Disabilità
Educare è il Primo Atto di Cura.Gerarchie dell’evidenza
Perché non tutte le evidenze hanno lo stesso peso. Alcune scorrono subito dentro il senso.
Altre devono attraversare resistenza.
L’antropologia chiama questo fenomeno gerarchia dell’evidenza: il fatto che non tutti i corpi, non tutte le voci, non tutte le storie vengono interpretate con lo stesso sforzo cognitivo.
Ed è qui che arrivano gli ultimi livelli del nostro percorso: età, disabilità, lingua e accento.
Non solo come temi conclusivi delle dieci card dedicate ai livelli di discriminazione connessi alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ma come forma estrema di vulnerabilità interpretativa: la tendenza a trasformare ciò che sappiamo già in ciò che crediamo di sapere.
L’età attribuisce un ruolo prima dell’esperienza.
La disabilità attribuisce un limite prima dell’ascolto.
La lingua e l’accento modulano la credibilità prima ancora che il contenuto emerga.
In entrambi i casi, non è la persona ad essere definita: sono i modelli culturali che anticipano la lettura della realtà e ne restringono il campo.

Modelli culturali e riconoscimento
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ci ricorda che i diritti non vivono solo nei testi: vivono nella capacità collettiva di rivedere le cornici interpretative che usiamo ogni giorno.
È un lavoro lento, discreto, ma necessario.
Riguarda tutti, ma non pesa allo stesso modo su tutti.
Non per ottenere risposte immediate, ma per riaprire spazi di confronto, che ci aiutino a pensare l’umano non attraverso le categorie che gli applichiamo, né attraverso le scorciatoie cognitive con cui cerchiamo di semplificarlo, ma attraverso il riconoscimento delle condizioni che rendono possibile — o impossibile — la sua interpretazione.
Oltre il margine del visibile
E forse è questo il nucleo:
i diritti non esistono soltanto perché vengono dichiarati,
ma perché trovano un mondo disposto a riconoscerli.








